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Il teatro (secondo noi)

di Claudio Montagna

Quando si sente l’esigenza di trasmettere un’idea e si desidera che venga recepita con la maggiore completezza possibile, si ricorre spesso a qualche forma di rappresentazione, che è un’espressione più potente della semplice comunicazione verbale.
La forma di rappresentazione di cui ci occupiamo noi si chiama teatro, quello per il quale i greci avevano costruito i loro teatri. La “rappresentazione teatrale”, non lo spettacolo di intrattenimento. Allo spettacolo i greci riservavano gli odeon: altra cosa in altro spazio.

Ogni forma di rappresentazione comunica, insegna, convince, apre la mente e “fa vedere” ciò che altrimenti è difficilmente visibile. In particolar modo nel teatro, grazie al fatto che la rappresentazione è attuata da qualcuno “presente” per una collettività “presente”.
Ogni artista, nell’ideare e realizzare le proprie opere ha tutto il diritto, quasi l’obbligo, di fare riferimento alle proprie ragioni, alle proprie sensibilità e ispirazioni. Tuttavia, per l’artista del teatro è impossibile realizzare prodotti finiti: i suoi prodotti sono incompleti fuorché nel momento in cui un pubblico vi assiste.
Il teatro infatti, a differenza delle altre arti, essendo un atto prima che un prodotto, non esiste fino a quando un pubblico non vi partecipa. E smette di esistere subito dopo.


Il teatro dunque non c’è se non c’è il pubblico presente.
Il teatro potrebbe nascere sempre nuovo, dalla compresenza di chi lo fa e di che ne fruisce. Su tale specificità, più che sullo “spettacolo”, il teatro potrebbe e dovrebbe puntare molto, ma questo accade di rado.
Si parla molto di “come si fa”, e poco di “cosa fa” il teatro; secondo me, esagerare il dibattito sulla forma ne immiserisce la funzione.
Si parla principalmente di chi fa teatro e di come lo fa, e non di chi lo va a vedere (o non ci va) e perché. Molti artisti e critici parlano di quello, come se fosse l’aspetto principale, e molti amministratori pubblici se ne sono fatti convincere e pensano a quello.
Così, il teatro finisce per trovarsi perdente in una competizione basata sulle abilità e la fama degli attori, sulla colta sapienza delle regie, sulla spettacolarità e sui costi degli apparati, dove cinema e televisione stravincono da decenni.

 

Credo invece che sarebbe meglio puntare le risorse disponibili prima di tutto sulle specificità della rappresentazione teatrale: un atto comunitario e a volte rituale, un’opportunità di partecipazione e confronto, un evento costituito dalla somma di presenza e linguaggi, utile a comprendere, ricordare, progettare collettivamente.
Penso che tutti, anche i milioni di persone che a teatro non vanno mai, avrebbero desiderio di accedere a occasioni per superare, coralmente, la comunicazione normale: per vedere e capire, per ridere a crepapelle o piangere sommessamente, per dare forma a fantasie e sogni inespressi e attraversarli in volo, per rivendicare con forza e consapevolezza diritti e riconoscere doveri, per vivere intensamente l’attimo che fugge o per parlare con la morte chiamandola sorella.

Un teatro perfetto non esiste se non c’è un pubblico perfetto.
E un pubblico perfetto è quello che chiede il teatro perché sa cos’è e a cosa gli può servire. E che se lo aspetta. E che sarà davvero partecipe al momento della rappresentazione, perché la sentirà come cosa sua, proprio sua. Un pubblico che sente davvero quanto lo spettacolo sta dicendo, perché si tratta di un sentire – già da prima – presente e diffuso.
Il teatro perfetto è frutto di un processo di relazioni tra chi lo fa, chi lo guarda e chi lo rende concretamente possibile. E’ una risposta a una domanda, cioè è necessario che il pubblico, direttamente o indirettamente lo sappia chiedere, accogliere o, eventualmente, rifiutare.
Esiste una gran quantità di pubblico, enorme, eccessiva, che non ha il proprio teatro: forse non ha incontrato e conosciuto che surrogati del teatro, e tanto gli basta per scegliere di accontentarsi o di farne a meno.
Comunque è quel pubblico al quale manca l’esperienza, per citare un’affermazione del Professor Gian Renzo Morteo, “dell’autentica dimensione dell’arte drammatica… quella d’una espressione ideale della vita di un popolo, e non soltanto del semplice divertimento di una sera.”

Per quel pubblico, sogno e tento di costruire un “teatro di chi non ci va”, dove le storie e gli aneddoti della gente possano essere rappresentate come leggende, dove ogni singola voce trovi un amplificatore per gridare agli altri la felicità e il dolore, un teatro-occhiale perché chiunque lo voglia e non solo il colto e l’esperto, possa vedere dimensioni altrimenti invisibili, un teatro ponte e veicolo per un contatto autentico con la storia, un teatro che attraverso l’emozione magari elementare e facile sollecita la ragione, un teatro dove la qualità si misura dall’efficacia e non dallo sfarzo.
Un teatro frontale, centrale o itinerante. All’aperto o al chiuso. Lungo un giorno, breve, brevissimo, oppure a puntate.
Micro azioni nei mercati o quadri viventi in successione. Narrazioni sceneggiate di grandi vicende o di piccoli avvenimenti locali. Incontri quasi rituali tra cittadini appartenenti ad aree sociali lontane tra loro.
Un teatro di attori bravi perché adatti. Di figure e pupazzi, di danza, musica, parola, festa, forza e presenza. Dentro le feste: Carnevale, Natale, il 25 aprile, il primo maggio, Ferragosto, Capodanno. Un teatro intorno ai temi della cronaca locale o della politica internazionale.
Un teatro civile, che sappia affettuosamente parlare di modelli e di valori. Un teatro che aiuti “a vedere” e a vivere più pienamente.

Claudio Montagna

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