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Direzione Artistica

di Claudio Montagna

Parlo con le parole, ma sovente non bastano,

non mi sentite, non mi capite, mi fraintendete, ridete di me, e capita che qualche volta rido di me
perfino io.

Interferenze
mi impediscono di dire chiaro
quello che so, sento, voglio;
a volte impediscono a me stesso di capirlo,
di vederlo:
interferenze anche per gli occhi,
dovrei essere cieco, ci vedrei meglio.
E' come se non ricordassi, la memoria non mi aiuta:
ricordo tutto quello che mi Ë successo in passato,
ma ci sono cose che mi sono presenti da sempre
e che io non riesco a snidare e definire;
mi attraggono, mi attraggono,
come se fossero la Terra Promessa,
e sono anni che attraverso il deserto per raggiungerle:
per vedere chiaro, finalmente, quel poco che per me davvero conta, le poche cose che - tuttavia -
so di sapere, sentire, volere...
come se fossero angeli con spade di fuoco, mi abbagliano
mi stordiscono, mi chiamano,
e non si mostrano...

Come posso mostrarle a voi?
Se riuscissi a dar loro una forma
potrei contemplarle io, potremmo contemplarle insieme, e, contemplandole, insieme
forse volare verso foreste tropicali, tavole imbandite, accoglienti manti stellati, nevicate viste dal
tepore di un divano e verso luoghi di pace e giustizia in terra e in cielo...
Ma le sole parole non mi aiutano a pensare, capire, dire.

Così io sono la lunga pellicola del mio film, che io stesso non riesco a vedere
perché il proiettore non si accende.
E rimane spento anche il proiettore degli altri, vedo montagne polverose di pellicole,
senza colore, senza suono e movimento, intuisco, sospetto, immagino,
ma non sento,
Non vedo.

Non sono le parole ad accendere il proiettore.

Ma mi capitò di tentare in altro modo.
Una musica mi accompagnò a catturare il gelo blu candido di una sera di neve;
un dipinto mi fece entrare in una luce di pollini di un pomeriggio di giugno;
al cinema
mi trafisse l'orrore dell'incontro
tra la fragile esistenza dell'uomo
e la cristallina indifferenza della morte;
e anche le parole, anch'esse, ma incise come ferite su pagine sanguinanti,
o sguainate come spade, o schierate come eserciti
di cornamuse e tamburi,
o sciolte nel vento
come capelli di ragazzi in moto,
mi hanno spiegato quanto
naufragar sia dolce in certi mari.

Non le parole dunque, ma
quel
parlare
accese il proiettore,
a volte così potentemente da incenerirmi alla vista di un solo fotogramma.
Ma in particolare quando, con quel parlare, chi mi parlava era presente; quando cioè non dovevo
limitarmi ad assistere a opere lontane dai loro creatori, ma essi fabbricavano per me, davanti a me,
le forme scintillanti del loro linguaggio, oppure lo facevo io per altri, allora quel parlare diventava un
viaggio - fatto non da solo - di scoperta:

Ecco un'orchestra in concerto,
che mi sollevò verso la comprensione
di geometrie mai viste;
un altro concerto ci fece scordare identità e presunzioni; una parola - sussurrata - accarezzò
contemporaneamente
in un grande cortile francese
dodicimila timpani e seimila cuori;
un gesto della mano e uno sguardo, al termine di una azione,

catturò nervi e lacrime di coscienza di tutti noi, in un applauso di venti minuti, un'altra sera.

Scoprivo che l'uomo era ricco padrone di linguaggi numerosi
per dire, vedere, sentire, ascoltare,

e che poteva scegliere.

Ho scelto il teatro.
Mi apparteneva perché mi piace stare tra gli altri mentre vediamo e comprendiamo, e perché mi
piace vedere gli altri che mi vedono e con me comprendono; perché somiglia a giocare a vendere,
alle liturgie della Settimana Santa, a scuola le volte che una lezione ci apriva la mente, all'asilo
dove il palcoscenico aveva odore di polvere e la polvere odore di Dio, alle barzellette raccontate in
treno, alle processioni, i cortei, le feste, Natale, compleanno, le fiabe di sera, i tunnel della paura,
Laura sul balcone, le mani del danzatore indiano, le rondini nere e il cielo azzurro, piangere di
felicità, pensarci per un mese, rabbia per i soprusi, capire, decidere, ricordare, celebrare,
ascoltare, sentire, vedere.
Vedere.
Insieme.
Con altri occhi.

Quando andavo a teatro con la scuola non vedevo quasi niente. Poi non sentivo, perché i miei
compagni facevano rumore con i gusci delle noccioline e dei semi di zucca, e con i sacchetti di
carta. Strano che mi sia sempre sembrato brutto e noioso, e che sovente mi sembri così anche
adesso, infatti a teatro non vado granché.

Ma arrivò anche per me un manipolo di santi: Melato, Poli, Fo, De Simone e De Filippo, Govi,
Mnouchkine, Kemp..., e mi dimostrarono che perfino Sofocle e Shakespeare, nel loro piccolo, la
pensavano come me. E arrivarono Artaud, Pasolini, Toschi, Chancerel, Copeau, Vilar, Sachs,
Schneider, Camporesi, Lorca, Calderon, Barba, Craig, Grotowski, Zolla, Nietzsche, Colli, Brecht,
De Martino, Nicoll, Allegri... il Professor Morteo, il mio amico Giovanni Moretti..., a darmi le parole
per spiegare, prima a me stesso e poi agli altri che non tutto quello che si autodefinisce teatro è
quel linguaggio, almeno per me e per chi lo cerca come me; ma che, tuttavia, volendolo trovare, il
teatro lo si incontra, e perfino con facilità. E che Mnemosine continua a tenere, per chiunque, la
sua mano tesa.

Così mi sono messo in testa di dire ad altri che il teatro c'è, è
inestinguibile.
Quel teatro, che per me è l'unico vero, che ci fa 'vedere', insieme, con altri occhi.
E sono diventato animatore. Mi sono fatto animatore teatrale, che è uno
che dice a tutti che c'è un linguaggio che, a qualcuno, può dare la vita.

L'animazione teatrale è tutta lì: dire che 'quel' teatro c'è, e farlo sperimentare, come fruitori e come
creatori.


Claudio Montagna

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