Riappropriazioni debite

≪Poichè oggi è più facile ottenere spettacolarità con altri mezzi - come cinema e televisione, mentre ieri lo era con il varietà, l'altro ieri con il circo equestre, prima ancora con i gladiatori e ancor prima con l'Odeon greco - giudichiamo meno esasperato (e forse piu propizio) lasciare al teatro quelle funzioni relazionali, celebrative e comunitarie che piu gli sono proprie...≫

...è vero che ciascuna realtà teatrale ha il proprio pubblico, ma è altrettanto vero che esiste una gran quantità di pubblico – enorme, eccessiva – che non ha il proprio teatro.

Considerazioni sulle specificità del teatro

Di Claudio Montagna
Torino, un anno qualunque, tra circa un secolo.

Più di due secoli fa, cioè verso la fine del 1800, fu inventato il cinematografo. Nel XX secolo esso soppiantò il teatro: dapprima si limitò a registrarlo, poi lo sostituì e lo superò, sia dal punto di vista della spettacolarità sia, spesso, per la qualità della recitazione e dell'interpretazione.
Per molti decenni la maggior parte degli artisti del teatro, dei quali il cinema faceva ormai a meno, si ostinò a difendere la specificità della propria arte; ma, di fatto, la specificità per cui lottavano ormai era definitivamente passata al cinema.
Chiaro segno che non si trattava di una specificità soltanto teatrale.
 
Forse erano proprio gli artisti del teatro che, più degli altri, ne soffrivano l'agonia. Sicuramente non solo per ragioni economiche.
Il pubblico andava volentieri a vedere i grandi attori. Forse per poter dire di averli visti di persona. O forse perché, in certi casi, la presenza era importante davvero, anche per quell'eccezionale ricchezza di sfumature che cineprese, videocamere e proiettori non erano ancora in grado di riprodurre. Come certa musica suonata dal vivo, rispetto a quella registrata.
Tuttavia, il pubblico degli spettacoli teatrali calò.

Molti artisti del teatro che insistevano nella competizione, finirono per rinunciare: nel raccontare e rappresentare storie e vicende e nella spettacolarità di scene e azioni, il cinema, già nella sua bidimensionalità, aveva stravinto. Infatti, la maggior parte degli spettatori non vedeva la ragione di spendere di più a teatro per vedere le stesse storie proposte dal cinema, spesso realizzate con minore spettacolarità e talvolta anche recitate meno bene, soltanto perché si usava affermare che...
"il teatro vale di più  perché è un momento di relazione": in questo genere di teatro, relazione con chi? Oppure che
"il teatro è interazione tra attori e spettatori; l'attore mi parla, ci 'sentiamo'...": l'attore, abbagliato dai fari, non mi vede. Se può vedermi, quando recita questo genere di teatro non mi guarda. E se mi sentisse, si infastidirebbe. Le altre percezioni reciproche, qui, sono così subliminali da potersi definire immaginarie. Oppure che
"il teatro è un evento collettivo, un rito...": il rito di incontrare gli amici nell'atrio, o quello della pizza dopo. Ma qui, 'durante', in quest'ora di buio silenzioso, c'è assenza di comunione, come nel buio della sala del cinema. C'è più relazione in casa davanti alla tv. O ancora che
"il teatro ha il sapore di un prodotto artigianale, come il pane cotto nel forno a legna": ma quale sensibilità, quali raffinati palati richiede il gusto di questo pane, per essere desiderato? O che
"il teatro è imprevisto e irripetibile": dopo la decima volta si ripete sempre uguale, a prescindere dalla città in cui si replica, l'unico imprevisto può essere un incidente in scena. O che
"il teatro è essere 'presenti' a un atto": sì, è vero che essere presenti, “esserci”, apre la mente a una comprensione più vasta. E’ il miracolo della trasmissione diretta di un’idea - da qualcuno a una collettività - attraverso la poesia, il miracolo del conoscere insieme che sa sfondare i limiti della quotidianità, e della poesia vissuta coralmente. E’ un miracolo, quando capita. Oppure che
"il teatro, rispetto al cinema, è tridimensionale". Vero. Fino a un secolo fa.
Ci volle parecchio tempo, prima che fosse chiaro per tutti che era inevitabile rinunciare. Diminuirono le compagnie in quanto gli attori vecchi sparivano e non ne nascevano di nuovi. Diminuirono corsi e scuole lasciando numerosi orfani.

Poco per volta ci si scordò che, il teatro, le specificità le ha davvero. Sono effettivamente la relazione e la comunione (questo, quando gli attori agiscono "su commissione" della comunità, intorno ai suoi temi vivi e presenti, le fanno da specchio e parlano la sua lingua… quando un gruppo, una comunità, un popolo, insieme ascolta, insieme assiste alla bellezza, insieme capisce e cresce, vi si annientano le individualità confondendosi in un’unità che ride, piange, ricorda, progetta, celebra il mistero della vita e della morte. Ma ciò accade davvero quando gli attori entrano a far parte della comunità, e se quest'ultima ha una dimensione contenuta, oppure ha caratteristiche di forte compattezza).
Di fatto il cinema offre qualcosa del genere, ma con prodotti immutabili e per insiemi di spettatori estranei gli uni agli altri. Perché, allora, il teatro si ostinava a operare nell’identico modo, quando invece poteva ricrearsi, ogni volta adeguato a gruppi differenti di persone già in relazione tra loro?
Dove la presenza, “esserci”, aveva un senso fondamentale, magari per interagire e partecipare?

Erano queste le specificità del teatro. Però i mutamenti della vita sociale le resero sempre più difficili da praticare, infatti si finì per limitare l’idea di teatro a pochi elementi: drammi, commedie, storie, racconti… tutte cose che, in due secoli, il cinema e gli altri prodotti per i grandi, medi e piccoli schermi si portarono via.
Molti artisti del teatro, nel merito, dovettero rinunciare al diritto di primogenitura.
Anche se, per le reali specificità del teatro essi restavano indispensabili, dovevano solo orientarsi su situazioni, dimensioni e ambiti dove fossero praticabili la relazione e la comunione, e dove la “presenza” fosse una reale necessità.
Là era davvero necessario uno sterminato intervento, era urgente, insostituibile.
Infatti, la distribuzione cinematografica globale non riusciva a colmare il vuoto che si era creato, per esempio, di

rituali attraenti e partecipati,
feste impregnate di teatralità diffusa,
cerimonieri, presenti e vicini, del ridere o del piangere,
momenti augurali, con 'presenze' speciali, messe in scena per benedire o per esorcizzare,
regali così grandi che è possibile farli e riceverli solo in un momento di immaginazione comune,
celebrazioni intorno a quadri viventi,
giochi di simulazione,
cortei lungo successioni di scene, o contenenti scene itineranti,
azioni e immagini vive, rappresentate per meditare,
imitazioni, per giocare,
forze creative capaci di mutare in leggenda rappresentata aneddoti recenti, e trasformare in personaggi persone viventi o
appena scomparse,
rappresentazioni di leggende locali,
strumenti alla portata di tutti per amplificare le voci e rendere comunicativi i messaggi,
strumenti per "tradurre" e rendere capillarmente accessibili i pensieri e i concetti più complessi,
rappresentazioni itineranti,
camuffamenti e travestimenti,
buffonate e rievocazioni,
ironia portata in scena sui fatti del momento,
rappresentazioni collettive del male e della morte per esorcizzarli, oppure per chiamarli, tutti insieme, fratello e sorella,
invenzione o reinvenzione e rappresentazione, con le forme espressive del posto, dei miti universali per dare speranza ai bambini e pace ai grandi,
racconti all'aperto,
serenate, scherzi, dibattiti divertenti e sfide verbali,
insegnamento, perfezionato e integrato da immagini e metafore,
momenti di riconoscimento collettivo, attraverso la rappresentazione delle caratteristiche comuni,
momenti di preghiera, purificazione o invocazione di aiuto,
riunioni arricchite da momenti di poesia materializzata in atti,
parole nuove in forma di azioni, espresse da qualcuno per qualcuno - pochi alla volta - per combattere gli ostacoli della comunicazione tra uomini…

Claudio Montagna